Aveva da poco fatto la prima dose di vaccino, poi una febbrata, il tampone per scrupolo e il verdetto: positivo al covid. E’ iniziata il 18 settembre scorso l’odissea di un tredicenne fiorentino. Nessun problema serio di salute, i sintomi sono spariti in 24 ore. Ma, appena tre giorni dopo la prima campanella, ha dovuto ricominiciare con la didattica a distanza. E dopo quasi un mese ancora fa lezione davanti ad uno schermo. Questo perché il ragazzino è uno dei casi di positivi a lungo termine: il tampone, a distanza di settimane, continua a rilevare la presenza del coronavirus, sia pure debole. In questi casi, dopo 21 giorni, se non ci sono più sintomi, l’isolamento domiciliare viene interrotto, perché il soggetto secondo le ricerche scientifiche non è più in grado di contagiare gli altri: così è stato per il giovane alunno, che allo scadere delle tre settimane è tornato libero di fare tutto. Non di andare a scuola, però. Il green pass, che pure gli è stato rilasciato, gli consente di andare al cinema, in discoteca, allo stadio, al ristorante al chiuso. Ma non basta per tornare in classe. Perché? Tutto deriva da un protocollo ministeriale elaborato in estate, poi recepito da una delibera regionale a settembre. Il protocollo ha reso più difficile il rientro il classe per i positivi di lunga data: lo scorso anno scolastico un alunno ancora positivo dopo 21 giorni sarebbe potuto tornare al suo banco, in presenza; da quest’anno invece per varcare il portone della scuola è indispensabile un tampone negativo, altrimenti è dad. Una situazione analoga a quella per i rientri in azienda dei lavoratori che hanno avuto il covid, che pure devono esibire un tampone. Ma qual è la logica di tutto questo? Se, passate tre settimane, non si è più contagiosi, perché non si può tornare in classe (o in ufficio)? Cambia qualcosa stare insieme agli altri in aula oppure nella calca di una discoteca?
Ascolta l’intervista a Daniela, madre del ragazzino “condannato” alla dad.